OMAGGIO A DE ANDRE'

Fabrizio De Andrè con la chitarra: così lo vogliamo ricordare!


Roberto Ferrucci AL PALAFENICE PER FABRIZIO....
di Roberto Ferrucci


Prima di uscire per andare al concerto di Fabrizio De Andrè, volevo allenare un po' l'orecchio, rinfrescare la memoria. Riascoltare qualche suo disco. Alla fine, però, mi sono accorto che De Andrè ce l'ho solo in vinile e il piatto del giradischi giù in magazzino. Così mi sono "accontentato" di Leonard Cohen e Bob Dylan, quelli che lui considera i suoi maestri, che ha tradotto e poi ricantato in italiano. Mi sono preoccupato di questa colpevole mancanza, oppure soltanto disattenzione, forse. E' triste questo abbandono del vinile; ci preoccupavano i fruscii, gli strisci, ma è davvero così migliore la pulizia dei nuovi sistemi?

Da quanto tempo non lo riascolto De Andrè? Molti anni, dall'avvento del cd, come minimo. Poi, a ben pensarci, mi sono reso conto che De Andrè è uno di quesgli autori (cantautore? Poeta?) che ormai fa parte di te, che ti sembra di averli tutti i suoi dischi, anche l'ultimo, Anime salve, eseguito per intero nel tour che sta toccando tutta l'Italia.

Anche dentro al Palafenice, guardandomi interno, mi chiedo quanti siano nella mia situazione, quanti lo riascoltano regolarmente, si alzano dalla poltrona, prendono il disco, accendono lo stereo, si risiedono e cantano magari insieme a lui. Generazioni intere, questa volta sì, qui al concerto, con molti fra i giovani che capisci essere arrivati a Fabrizio attraverso suo figlio Cristiano, che in questo tour si dimostra anche ottimo chitarrista e violinista. Toccherà a lui riaprire dopo la pausa con Nel bene e nel male e Invincibili, eseguiti con la sola chitarra e accompagnato da molti ragazzini che cantano insieme a lui. Ma tutti cantano durante il concerto, fin dall'inizio, tre brani tratti da Creuza de ma, e poi le nove canzoni di Anime salve, scritto insieme a Ivano Fossati, ed è un canto non certo da coro da stadio, ma qualcosa di più sommesso, una sorta di accompagnamento emotivo, forse. La voce di de Andrè, invece, quella di sempre, inconfondibile, uguale ai due concerti dal vivo che ho già visto più di quindici anni fa, al Palasport di Mestre uno, e quello con la P.F.M. prima ancora, non ricordo più dove e di cui sono rimasti alcuni arrangiamenti anche nel concerto di questa sera. Canta seduto, come sempre, si alzerà solo alla fine, per presentare i musicisti, bravissimi, su tutti Mark Harris alle tastiere, Ellade Bandini alla batteria, Rosario Jermano alle percussioni. La scenografia è semplice, uno sfondo monocolore come fosse un cielo, a volte arancione come un infuocato tramonto, a volte azzurro, con le ombre dei musicisti a fare da nuvole. Ai due lati, degli enormi tarocchi che a sinistra sono messi insieme a comporre un castello di carte e a me piace pensare che quell'equilibrio così precario ma perfetto sia l'esemplificazione del suo fare musica.

Ma è la seconda parte a essere necessariamente la più seguita, la più intensa, quella dei classici: quei brani che dire che fanno parte della nostra vita è pura verità. Si parte con cinque brani da La buona novella, album del 1970 che, in un periodo di pieno fermento studentesco, fu accolto male da chi pensava fosse sbagliato occuparsi della vita di Cristo. Eppure, nonostante ciò, anche qui la partecipazione è intensa, qualcuno non trattiene le lacrime. Finite (le canzoni; le lacrime, quelle, ci saranno anche dopo) parte il gran finale con Bocca di rosa, Amico fragile, Via del campo, Sand Creek e si mette in moto tutto l'immaginario emotivo: quanti anni avevo quando ho sentito per la prima volta Bocca di rosa, se non conoscevo ancora l'esistenza del verbo parafrasare che io capivo parafrasario per far rima con commissario? E che dire della madre di una mia amica che vietò a sua figlia di ascoltare De Andrè dopo averne letto i testi? E poi vengono in mente Mauro Pagani (avrà insegnato lui il violino a Cristiano?), la P.F.M., Massimo Bubola. E sul meraviglioso fuori scaletta, Geordie, cantato insieme alla figlia Luvi, non puoi non ripensare a Dori Ghezzi, al rapimento, alla bravura anche di questa figlia (ma che cosa significa essere figli di De Andrè e fare il suo stesso mestiere?).

Si chiude con Marinella e Sand Creek ed è l'apoteosi, con la gente in piedi sotto il palco. Sarebbe da prendere l'accendino dalla tasca, adesso, ma dato il luogo forse è meglio lasciar perdere. Finiti i ringraziamenti è tutto uno stringere le mani sotto il palco, per ringraziare un amico, un compagno di vita, mica solo un semplice cantautore. Fuori, mi chiedo chi altri in Italia, possa essere paragonato a De Andrè, a uno che, per chi è attorno ai quaranta, c'è sempre stato, da quando abbiamo acceso per la prima volta la radio e stasera era qui a cantare ancora quelle canzoni, e altre di nuove, belle come le vecchie. Verso casa, la notte, invece di fischiettare le canzoni appena ascoltate, canticchio tutte quelle che non ho sentito. E poi una domanda: la serata per me è cominciata ascoltando Leonard Cohen e Bob Dyland. Chissà se ha proprio Fernanda Pivano, quando dice che se De Andrè fosse nato negli USA sarebbe ancora più grande di questi grandi?

(1997)