METODO
Rivista
di architettura, politica internazionale,
storia, scienze e società
fondata
da Pier Luigi Maffei
N. 13/GIUGNO 1997, X
N.
14/Dicembre 1998, XI
Ponte del diavolo (Borgo a Mozzano - Lucca)
N. 13 - Giugno 1997, Anno X
Direttore responsabile: Dr. Giovanni Armillotta
Direttore editoriale: Prof. Ing. Pier Luigi Maffei
Redazione: METODO
Associazione Socioculturale, 56017 Gello (S. Giuliano Terme), Via Ulisse Dini
66, tel. +39.050.815225
Registro dei Periodici del Tribunale
di Pisa: n° 13 dell'8 agosto 1988
Come ricorderanno
i lettori, lo scorso numero lo abbiamo dedicato al grande architetto futurista
Antonio Valente, nel centenario della nascita. La scelta attuale - pur articolata
in temi di stretta attualità - non prescinde dall'aspetto tipicamente
monografico della nostra rivista; rappresenta, anzi, uno stimolo per trasporre
il soggetto da letterario ad iconografico, attraverso due appuntamenti di altissimo
livello italiano e mondiale, strettamente legati fra loro.
Dal
5 aprile al 29 giugno 1997, la torinese Accademia Albertina delle Belle
Arti in collaborazione con l'Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte
ed il Museo Statale di Architettura e per la Ricerca Scientifica A.V. cusev
di Mosca ospita il maggior evento culturale dell'anno, la mostra U.R.S.S.
anni '30-'50. Paesaggi dell'utopia staliniana e, contemporaneamente, la
capitale russa celebra il suo DCCCL anniversario.
Il
nostro collaboratore, Francesco Noja, recatosi appositamente a Torino, ha portato
con sé indelebili impressioni e lo stupendo catalogo della mostra, curato
impareggiabilmente da Alessandro De Magistris ed edito dalla Mazzotta. Gli ho
affidato la monografia iconografica affinché dopo il successo ottenuto
dalla precedente rassegna futurista di «Metodo» («Corriere
della Sera», «La Nazione», ecc.), Noja, per mezzo
di una personale applicazione dell'immagine al testo, faccia riferimento all'arte
di realismo socialista come «il ritorno del soggetto e del tema»,
«la predominanza del tipo nuovo», manifestantisi «mediante
i codici della narrazione lineare» (Josette Bouvard).
Lo
scorcio di millennio non può che condurci al pensiero di Sant'Elia (1914),
e quel «balordo miscuglio dei più vari elementi di stile [...]
chiamato architettura moderna» sarà sconfitto più tardi
dal futurismo italiano degli anni Trenta-Quaranta e dall'accademismo moscovita,
portatori dei più alti valori architettonici a mezza strada fra
«un'arte formatasi sulla base dell'edilizia» (I.L. Maca) e «un'attività
che crea l'ambiente spaziale materialmente organizzato, la sfera di azione
fra i vari processi del lavoro, della vita quotidiana e della cultura»
(K.A. Ivanov).
Se
Emilio Tadini sul «Corriere della Sera» (15 maggio 1997),
ci ricorda come la scuola italiana del Ventennio abbia influenzato l'architettura
sovietica, d'altro canto è emblematica la scelta di Noja nel porre in
prima pagina il progetto di B. Iofan, A.V. cuko e V. Gel'frejch al concorso
per il Palazzo dei Soviet. Opera, che pur potendosi definire espressione del
"classicismo", andava intesa come «la perfezione classica di una mentalità
e non come una semplice utilizzazione di qualunque forma antica solo perché
classica» (A.V. cusev, 1933): in queste parole il rifiuto di Sant'Elia
alle egizianerie, ai bizantineggiamenti, ed allo «sbalorditivo fiorire
di idiozie e di impotenza che prese il nome di "neo-classicismo"» acquista
un riconoscimento epocale, sia pure a distanza di diciannove anni. Non per nulla
il concorso rappresenta a tutt'oggi una pietra miliare nella storia dell'architettura
di questo secolo. Esso segnò la fine dell'avanguardismo non soltanto
in Unione Sovietica, ma pure ad Ovest, ponendo termine alla reciproca opposizione
fra l'architettura d'avanguardia e lo storicismo caratterizzante gli anni Venti.
«Si generò un fenomenale rifiuto della nuova architettura in favore
della valorizzazione dell'eredità classica, che creò come risultato
una tendenza architettonica "degli anni Trenta", unica nel contesto internazionale,
in quanto fusione originale di architettura moderna e storica» (Igor'
Kazus'). Di conseguenza l'adozione della maestosità classica degli anni
Trenta-Cinquanta contrapposta agli effetti minimi del neo-classicismo
si poneva perfettamente nell'alveo dell'arte di realismo che abbisognava
di essere nazionale nella forma e socialista nel contenuto. «La
sostituzione dei modelli utopistici che avevano caratterizzato il periodo staliniano
cambiò il tipo di richieste e l'orientamento del lavoro architettonico.
L'utopia socialista degli anni di Chrucëv non superò il livello
del quarto piano» (Andrej Ikonnikov).
Capita
spesso in Italia che i progetti di lavori pubblici vengano affidati a progettisti
senza una completa definizione delle esigenze e dei requisiti e che essi si
mettano quindi all'opera, informandosi direttamente, prefigurando situazioni
non esplicitate dalla committenza e pertanto basate su personali conoscenze
ed esperienze.
Capita
altrettanto frequentemente che il progetto rimanga a livello "di massima", senza
cioè quella definizione che si dovrebbe richiedere, tipica della progettazione
operativa, ottenibile solamente con apporti disciplinari plurimi, per gli aspetti
che vanno dal calcolo strutturale ed impiantistico alla preventivazione dei
costi e alla programmazione dei tempi di realizzazione. Il risultato è
che i capitolati di appalto presentano voci approssimative assunte da capitolati
standard e che i computi metrico-estimativi risentono di valutazioni approssimative.
Da qui ne discende che non potrà destare meraviglia il fatto che le realizzazioni
si presentino carenti, prive dei necessari requisiti, lasciando pertanto a desiderare
sotto il profilo prestazionale oltre che ottenute a costi di impianto decisamente
superiori al preventivato, senza garanzie di durabilità, di manutenibilità
e di contenimento in limiti logici ed accettabili dei costi di esercizio.
Per
questi motivi, e per altri di seguito espressi, risulta utile introdurre anche
nel settore delle costruzioni civili e delle prestazioni di servizi il metodo
dell'analisi del valore che, se introdotto anche in Italia, consentirebbe
di superare molti dei ricordati inconvenienti e di ridurre il costo globale
delle opere, somma di quello di realizzazione e di esercizio nella vita utile
del prodotto (life cycle cost).
Dal
momento che troppo spesso i concetti di "valore" e di "qualità" vengono
confusi, ripartiamo dalle definizioni:
valore - è il rapporto tra il costo dell'utilità della funzione considerata, intesa come minimo prezzo che saremmo disposti a pagare per l'esplicazione di quella determinata funzione, ed il costo del bene o servizio che assicura la funzione esaminata;
qualità - è la totalità degli attributi e delle caratteristiche di un prodotto o servizio che concorrono alla sua capacità di soddisfare esigenze specificate o implicite.
Alla luce
di dette definizioni, si scopre che un intuitivo concetto di valore era ben
presente all'uomo, magari nell'inconscio, fin dai primordi, quando venivano
effettuati i baratti di prodotti in rapporto all'uso e quindi all'utilità
dello stesso, dando cioè ad ogni prodotto un valore in rapporto alla
funzione. Ma ciò si verificava anche nell'ambito delle costruzioni in
quanto, fin dalle origini della presenza umana sulla terra, la costruzione nasceva
e diventava sinonimo di rifugio o di monumento celebrativo, abbinando al concetto
di utilità, e quindi di valore, anche quello di qualità dell'opera
realizzata.
Valore,
quindi, in rapporto alla qualità delle funzioni che un prodotto consente
di esplicare e qualità di un prodotto in termini di rispondenza
tecnologica, trattandosi di garantire la sicurezza, la funzionalità,
il decoro nell'aspetto, la manutenibilità e la durabilità a garanzia
di mantenimento di un elevato valore economico del bene, nel tempo.
Oggi,
nell'epoca caratterizzata dai rapidi mutamenti, alla innovazione tecnologica
si riscontra che non viene sempre a corrispondere una qualità del prodotto;
ciò per difetto di progettazione, errato accostamento di materiali incompatibili,
incapacità costruttiva ed anche, purtroppo, per motivi di ordine etico
e professionale.
Da
qui la necessità di rivedere i ruoli dei vari attori e operatori del
processo delle costruzioni civili e di darsi regole per addivenire ad un nuovo,
ben più maturo, codice comportamentale, tale da consentire la qualificazione
di tutti gli aspetti dell'"arte del fabbricare".
Sulla
base delle definizioni date, si evince quindi che il metodo dell'analisi
del valore, così come verrà ora qui di seguito definito, è
uno strumento per il perseguimento della qualità di un prodotto o
di un servizio, consentendo di addivenire a soluzioni che a parità
di funzioni, se non con miglioramento funzionale, comportano un più contenuto
costo globale del bene considerato.
L'analisi
del valore consiste, infatti, in una attività organizzata di un gruppo
pluridisciplinare, costituito da esperti e non, coordinato da chi conosce il
linguaggio delle varie discipline e sa portare a sintesi il lavoro svolto collegialmente
dai membri componenti, chiamati ad analizzare le funzioni del prodotto
o del servizio, allo scopo di ottenere le prestazioni essenziali al più
basso costo globale possibile, compatibilmente con i requisiti richiesti
ed i livelli di funzionalità, affidabilità, qualità, e
sicurezza definiti nelle specifiche, livelli che si intendono quindi riscontrare
in sede di collaudo.
Con
l'analisi del valore le attenzioni si concentrano quindi sulle funzioni
che un determinato prodotto o servizio deve esplicare per soddisfare alle esigenze
del committente e del fruitore, in rapporto a quanto il primo è disposto
a pagare per la realizzazione ed il secondo per la gestione e l'esercizio.
In
progettazioni complesse, quali le progettazioni ospedaliere, i risultati che
si possono ottenere a vantaggio della comunità sono notevoli.
Pur
non essendo una "caccia agli errori", ma un valido apporto collaborativo per
il gruppo di progettazione, spesso avviene che il lavoro degli analisti del
valore consente anche di eliminare errori di progettazione, evitando di conseguenza
carenze, vizi e difetti nel prodotto o nel servizio preso in esame. In questo
senso si è allora in presenza di uno strumento utile per garantire la
qualità del bene considerato.
Non
è infrequente che l'industria meccanica richieda ad un gruppo di analisti
del valore di valutare il processo di produzione per ridurre difettosità
riscontrate dai clienti nel prodotto o per meglio soddisfare le esigenze del
cliente, cosa indispensabile in regime di libero mercato. In questo senso il
ricorso al metodo diventa una scelta strategica del produttore che vede evolvere
il mercato verso la richiesta di una sempre maggiore affidabilità del
prodotto. Per una ditta di elettrodomestici fu messo al lavoro un gruppo di
7 persone: un ingegnere con il ruolo di coordinatore, un progettista, un impiantista,
un esperto di macchine ed attrezzature di produzione e tre non esperti: un fornitore,
un tecnico della ditta ed un cliente. In sette riunioni di sei ore ciascuna,
in due mesi, furono formulate proposte che hanno comportato migliorie ed economie
pari al 15% del costo industriale dei componenti analizzati.
L'impresa
del settore delle costruzioni civili, che intendesse inserirsi nel sistema
qualità, puntando sui miglioramenti del processo produttivo per sempre
meglio rispondere sul piano della competitività alle esigenze della committenza
e dei fruitori del prodotto, trova quindi nell'analisi del valore una
positiva risposta, potendosi giungere, con l'apporto collaborativo dato dagli
analisti del valore ai progettisti, ad una progettazione operativa, tale cioè
da consentire di portare nelle gare di aggiudicazione degli appalti, elaborati
realmente esecutivi in tutti i dettagli, con il minor numero possibile di indeterminazioni.
L'obiettivo
non è allora l'abbattimento dei costi, anche se è dimostrato che
attraverso questo modo si ottengono delle economie, ma, prendendo a riferimento
le funzioni e ricercando il valore delle stesse, l'obiettivo è la qualità
del prodotto o del servizio considerato.
In
questo senso essa rappresenta pertanto uno strumento per la qualità
totale: qualità in tutte le fasi del processo, realizzando anche
le condizioni per avere i migliori possibili rapporti fra committenza, gruppo
progettuale, fornitori e produttori del bene.
Le prime
applicazioni di analisi del valore furono compiute dagli Statunitensi
durante la seconda guerra mondiale, quando divenne impossibile reperire materiali
essenziali e si dovettero cercare soluzioni alternative.
Fu
Lawrence D. Miles, ingegnere, che nel 1947 sviluppò una metodologia basata
sulla ricerca di materiali alternativi, mettendo l'attenzione sulle funzioni
che il prodotto doveva esplicare e sul valore della funzione del prodotto stesso.
Fu così che la compagnia General Electric ricorse a materiali
sostitutivi rispetto a quelli previsti nel progetto originario, materiali che
risultarono ugualmente utili, se non addirittura più funzionali alle
esigenze, oltre che di costo inferiore.
Questo
approccio consentì successivamente di giungere anche ad un controllo
della sempre crescente spirale dei costi di impianto e di gestione, assicurando
contestualmente all'efficienza e all'attendibilità delle soluzioni, una
minore incidenza delle spese di esercizio ed in particolare di manutenzione.
Il
metodo dell'analisi del valore si articola in cinque fasi:
1. fase informativa;
2. fase creativa;
3. fase analitico-selettiva;
4. fase di sviluppo;
5. fase di presentazione delle soluzioni alternative.
Nella fase
informativa, note le esigenze dei fruitori e degli utenti, si tratta di
prendere visione, per esempio, del progetto in iter, evidenziandone le funzioni
da assoggettare a giudizio di valore.
Nella fase creativa si suggeriscono soluzioni alternative che soddisfano
o migliorano le funzioni.
Nella fase analitico-selettiva si selezionano le alternative e se ne
determinano i costi mettendoli a confronto con quelli della soluzione esaminata.
Nella fase di sviluppo si stabilisce l'attuabilità tecnica della
alternativa scelta.
Nella fase di presentazione delle soluzioni alternative si evidenziano
alla committenza i vantaggi che se ne avrebbero adottandole, sempre in risposta
ai requisiti prefissati.
Per
esemplificare, nel caso di un progetto edilizio, evidenziate le attività
e le unità ambientali, intese come insiemi di attività compatibili,
e ciò in rapporto ai requisiti in base ai bisogni e alle esigenze dei
fruitori e degli utenti, si analizzano le funzioni assoggettandole a verifiche
di rispondenza ai requisiti, in termini prestazionali.
Definita
l'utilità (worth) come minimo prezzo che saremmo disposti a pagare
per l'esplicazione di quella determinata funzione in esame, in determinate condizioni
ambientali, si definisce valore di una funzione il rapporto fra il costo dell'utilità
(W) ed il costo dell'oggetto che esplica quella determinata funzione (C):
V = W/C
Ne deriva
che un prodotto od un servizio svolge una funzione valida quando V è
superiore a 1.
Questi
valori vengono pertanto ad essere dei veri e propri indicatori funzionali.
Quando
un oggetto ha una sola funzione, la misura dell'utilità della stessa
viene a coincidere con l'utilità dell'oggetto stesso.
Una
volta definiti gli obiettivi ed espresse le esigenze della committenza e dell'utenza,
l'applicazione dell'analisi del valore passa attraverso la risposta a
domande rivolte alla definizione delle funzioni esplicate dalle parti di progetto
analizzate in successione, chiedendosi:
1. quali funzioni svolgono;
2. quanto costano le opere previste dal progetto che le consentono;
3. quali valori vi corrispondono o più semplicemente se comportano un valore V >= 1;
4. quali sono le soluzioni alternative che esplicano le stesse funzioni;
5. quanto costano le opere corrispondenti alle soluzioni alternative.
A questo
punto tutte le soluzioni che a parità di funzione, meglio se con miglioramento
funzionale, comportano costi globali inferiori rispetto alla soluzione esaminata,
vengono sottoposte al vaglio del progettista e della committenza.
Per
quanto attiene alla funzione definita dal prodotto o dal servizio, essa viene
espressa con un verbo attivo e con un sostantivo misurabile.
Trattandosi
di un pannello per controsoffitto si dirà: "assorbe suoni", oppure "protegge
termicamente" ecc.
Analizzando
un progetto, elencate tutte le funzioni, in risposta agli obiettivi e alle richieste
della committenza, si procede alla selezione delle funzioni principali e secondarie,
eliminando quelle secondarie non richieste e non ritenute necessarie e ci si
interroga sui punti precedentemente espressi.
Stante
la definizione, il valore si può aumentare:
a) migliorando l'utilità a parità di costo;
b) mantenendo l'utilità ad un costo più basso;
c) intervenendo su entrambe le entità.
Infine, nel caso del processo edilizio, i principali elementi di articolazione per la determinazione del valore dell'opera sono i seguenti:
ambientale in termini di attribuzione di peso in base alla funzione che l'opera viene ad esplicare nell'ambiente naturale e/o costruito, in rapporto all'impatto visivo, al rispetto delle condizioni climatiche, ecc., per la determinazione del valore del quale concorrono condizioni difficilmente riconducibili a codici di riferimento;
distributivo-funzionale in termini di accessibilità, di fruibilità di spazi, di presenza di percorsi preferenziali, di dimensioni rapportate al numero degli utenti e alle loro esigenze, di connettivo, di razionalizzazione degli impianti, di flessibilità, di versatilità, ecc.;
tecnologico in termini di scelta coordinata di materiali compatibili che danno garanzia di rispetto di requisiti, quali la durabilità, la manutenibilità, ecc.;
estetico-formale in termini di qualità artistica, capace di apportare un aumento di valore allo spazio vitale, che, legandosi ad una cultura dei segni oltre che dei comportamenti, faccia assurgere l'edilizia ad Architettura, riconoscendo che con gli standards si realizzano i minimi funzionali, ma non certamente quelle qualità globali che sono tipiche delle opere d'arte;
socio-economico in termini di impatto con una realtà sociale che richiede opere sempre e comunque in risposta a bisogni e ad esigenze, ma in stretto rapporto con le risorse economiche disponibili.
Uno degli
elementi qualificanti un sistema di progettazione, ormai di uso generalizzato,
è l'utilizzo del calcolatore. I risultati ottenuti negli ultimi anni,
in tale direzione sono notevoli, grazie ad un consistente sviluppo sia nel campo
dell'elaborazione del software che in quello dei microprocessori. Infatti
è ormai facile trovare sul mercato codici di calcolo strutturale che
possono essere utilizzati su normali personal computer. Tali codici,
nello studio della realtà fisica, utilizzano il metodo degli elementi
finiti. Ossia, con tale terminologia si indica un metodo attraverso il quale
è possibile dare una rappresentazione virtuale dell'oggetto che si vuole
studiare.
Senza
entrare in tecnicismi appare ovvio che quanto maggiore è il numero degli
elementi (per esempio cubetti) in cui viene suddiviso l'oggetto tanto
migliori saranno i risultati della sua rappresentazione virtuale e quindi anche
delle analisi successive.
Personalmente
sono rimasto colpito nell'utilizzo di uno di tali codici poiché i vantaggi
offerti sono considerevoli: soprattutto vengono bypassate le difficoltà
di carattere matematico riuscendo, quindi, ad ottenere indagini di tipo strutturale
molto precise, impossibili da raggiungere per altre vie.
L'uso
del personal computer in questo senso costituisce un aspetto molto positivo,
nonostante siamo ancora lontani dal parlare di larga diffusione in quanto il
bagaglio di conoscenze richiesto per produrre tale tipi di indagini rimane elevato.
Ma
lo scopo principale è quello di dare una risposta alla seguente domanda:
è possibile con tali tipi di codici progettare una macchina che funzioni
per un tempo voluto, prevedendone quindi l'avaria?
La
risposta è sicuramente positiva se si conosce con buona precisione la
natura delle sollecitazioni a cui è sottoposta. Non ci è certamente
sfuggito che negli ultimi anni, troppo spesso si è sentito publicizzare,
ad esempio, automobili di marca giapponese e sud-coreana nazioni queste
di scarsa tradizione in tale campo garantite per un certo numero di chilometri
o anni. Ma siamo sicuri che non si poteva fare meglio?
Al
contrario, nel nostro Continente, le esperienze nel campo della meccanica, appaiono
consolidate e valide per quanto concerne il settore automobilistico, aeronautico,
ecc. Questo senz'altro lo si dovette ai consolidati esempi dell'industria americana,
che a partire dai primi anni del New Deal si è sviluppata
incessantemente fino a condurre la propria tecnologia a stadi di avanzata realizzazione
in campo nucleare, missilistico e spaziale, divenendone il massimo punto di
riferimento.
Per
ricollegarci al tema monografico della rivista, la stessa ex URSS per anni è
stata all'avanguardia nel calcolo strutturale attraverso studiosi quali S. Timoshenko,
V.I. Feodosev, Juravski, ed altri. Dal varo delle prime pjatilekta (in
specie la seconda che pose l'URSS alle spalle dei soli Stati Uniti per la produzione
industriale, 1937) l'esigenza vitale sovietica di costruire macchine che resistessero
all'usura e avessero un limite di durata eccezionalmente lungo, poté
concretizzarsi solo prendendo come punto di riferimento l'Europa e l'America:
le affermazioni nell'industria pesante prima, e bellica dopo, sono note a tutti.
Con
questo è doveroso sottolineare quanto sia prudente accogliere tecnologia
asiatica che salvo nelle applicazioni informatiche (dove l'elemento meccanico
è trascurabile) ci pone seri dubbi sull'effettiva efficacia di
una produzione a basso costo che apparentemente migliora l'esistente (sia pure
a tempo "determinato"), al contempo provocando un'inutile perfezione di ciò
che già è presente sul mercato.
Quest'ultimo
aspetto determina un blocco finanziario occidentale delle ricerche innovative
(con il contemporaneo abbassamento del costo del lavoro asiatico); di conseguenza
eventuali progressi non saranno in grado di manifestarsi nel breve periodo a
favore di una spietata concorrenza che le Cinque Tigri (compresa Pechino fra
qualche anno) auspicano, in quanto coscienti della loro inferiorità su
piano progettuale compensata largamente da un massiccio apporto demografico.
Sui
"prodigi" della tecnologia nipponica si legga l'articolo di Mary Jordan e Kevin
Sullivan, apparso sull'«International Herald Tribune» del
16 maggio scorso.
All'indomani
del secondo conflitto mondiale, l'Albania unica in Europa ad aver condotto
da sola la guerra di liberazione non poteva più essere impiegata
come moneta di scambio ed oggetto di mercanteggiamenti da parte delle potenze.
Essa era apparsa non più formalmente sull'arena internazionale come Paese
libero e sovrano.
Il
consolidamento del nuovo Stato albanese (1944-1955) richiedeva anche il rafforzamento
della sua posizione geopolitica all'indomani della rottura con l'Unione Sovietica.
Dagli
anni Sessanta l'Albania iniziò a stabilire rapporti equi con tutte le
capitali (ad esclusione di Mosca e Washington), basando tali relazioni sull'interesse
ed il vantaggio reciproci, seguendo il principio di non ingerenza negli affari
altrui, e applicando rigorosamente la norma di non dare concessioni, creare
società e altre istituzioni economiche e finanziarie straniere o miste
«con i monopoli e gli Stati capitalistici, borghesi e revisionisti, come
pure ricevere crediti da essi» (1).
Per
anni l'Albania non divenne patrimonio dei mass-media, ed ogni tanto
se la si sentiva in radio o televisione o era per le classiche elezioni
di regime a lista unica, oppure per qualche manifestazione sportiva che vedeva
partecipare anche compagini italiane. I drammatici avvenimenti dell'ultimo periodo
sono il risultato di un radicale mutamento delle istituzioni che contrariamente
agli altri Paesi dell'Est ha scardinato completamente le vecchie nomenclature,
rimpiazzate dall'inesperienza di un apparato statale spesso non preparato all'impatto
sociale, e principalmente economico-finanziario, di alcuni miti occidentali
(arricchimento rapido, consumismo sfrenato, liberalismo privo di sovrastrutture,
ecc.). In breve, per dirla con le parole di Elio Miracco, l'Albania 1992-97
è stata «una democrazia, pur con i suoi limiti e le sue difficoltà,
uccisa in un isterismo collettivo che non può che portarla alla deriva.
In questi momenti non c'è albanese che non rimpianga l'ordine e la stabilità
del passato regime» (2), e ciò
la dirà lunga alle prossime elezioni politiche fissate per il 29 giugno.
Nell'articolo
si esaminerà l'ultimo decennio degli affari esteri albanesi: una serie
di ottime affermazioni politiche, le quali, se da un lato hanno confermato la
validità storica della diplomazia albanese ai suoi vertici, dall'altro
non ha visto soddisfatti in casa i propri sforzi di miglioramento.
All'avvento
di Ramiz Alia (3) succeduto al
dominio quarantennale di Enver Hoxha (1944-85) l'imperativo di espandere
contatti col resto del mondo rappresentava il maggior stimolo se si voleva migliorare
notevolmente la situazione generale. Nello stesso anno il vice ministro della
Difesa, e capo di Stato Maggiore, affermò che la sicurezza albanese dipendesse
da un attento e costante esame dello scenario mondiale, in modo che l'adozione
di misure diplomatiche nei momenti di crisi fosse immediata e decisiva.
Migliori rapporti di buon vicinato sosteneva l'alto ufficiale (4)
avrebbero consentito al Paese di guadagnare tempo per l'acquisizione di
sostegni dall'estero, nonché si sarebbe potuto contare su solidarietà
e simpatia dell'opinione pubblica internazionale in caso di invasione (ricordiamo
che nell'agosto 1990 l'Albania condannò immediatamente l'Iraq per l'occupazione
del Kuwait). In questo modo l'Albania pur militarmente debole avrebbe
mantenuto determinazione e volontà nell'organizzare un'efficace rete
di guerriglia e resistenza contro eventuali forze occupanti. (A questo proposito
ci sembra il caso di rivalutare la fitta presenza sul territorio di migliaia
di bunker, strategicamente posti in vicinanza dei confini jugoslavi. Sembra
che il presidente Sali Berisha non sia affatto intenzionato ad abbatterli. Berisha,
in maniera lungimirante, e tenendo conto della grave situazione in cui versano
i Balcani, si rende perfettamente conto che in caso di invasione, i bunker rappresentano
l'unica arma "non convenzionale" atta a ritardare gli effetti letali di un'invasione
straniera).
Ramiz
Alia era particolarmente intenzionato ad introdurre tecnologia occidentale,
sebbene le limitate riserve valutarie ed i divieti costituzionali su prestiti
e crediti dall'esterno condizionassero non poco le attese dei vertici. Le dichiarazioni
pubbliche del leader albanese (5) indicavano
nettamente i propri intendimenti, i quali rispetto al passato sarebbero
stati improntati a peculiarità di carattere economico che non ideologico.
Fra
il 24 ed il 26 febbraio 1988, l'Albania prese parte, a Belgrado, ai lavori della
Conferenza fra le sei diplomazie balcaniche, dimostrando flessibilità
nell'ottica di una rinnovata politica estera. Tra le altre cose si preferì
non inasprire i rapporti con la Jugoslavia riguardo alla Kosova (che però
si aggravarono nel febbraio-marzo 1989) (6).
Al contempo migliorarono notevolmente le relazioni con Italia, Turchia e Grecia
(abrogazione da parte di Atene, 28 agosto 1987, dello stato di guerra con
l'Albania in vigore dal 1940). I ministri degli Esteri balcanici si ritrovarono
a Tirana il 24-25 ottobre 1990: chiaro segno della massima disponibilità
albanese ad un confronto pacifico e costruttivo.
Già
prima si erano ufficializzati i rapporti con Spagna (1986), Canada, Uruguay
(1987). Nello stesso periodo con la Germania Federale si addivenne ad un accomodamento
sulla questione delle riparazioni per i danni di guerra. Bonn e Tirana si accordarono
sull'assistenza tedesca nel settore agricolo, sul riammodernamento del sistema
dei trasporti, di quello militare, e nel 1989 la Germania concesse un prestito
di 20 milioni di marchi (7). Lo stesso
ministro degli esteri tedesco-federale, Hans-Dietrich Genscher, aveva visitato
l'Albania, accolto da Alia (23 ottobre 1987). Ventitré giorni dopo fu
la volta del presidente del Governo regionale della Baviera, Franz Joseph Strauss.
Pure
con i Paesi del Patto di Varsavia si notarono notevoli aperture. Il ministro
degli Esteri tedesco-democratico, Oskar Fischer, effettuò un viaggio
a Tirana nel giugno 1989, ricevuto personalmente da Alia; seguirono accordi
commerciali con alcuni Stati dell'Est ed anche col COMECON (8).
Inoltre si segnalò l'innalzamento delle relazioni albano-bulgare a livello
d'ambasciatori sospese per vent'anni dall'esecutivo di Sofia (26 gennaio 1988)
(9); lo stesso dicasi per Angola e
Ungheria; e volontà da parte polacca, cecoslovacca e della Romania (10)
di migliorare i rapporti (1988) (11).
Con Bucarest i contatti divennero eccellenti l'anno dopo: l'Albania fu uno dei
primi Stati a solidarizzare con gl'insorti che abbatterono Ceausescu (dicembre
1989). I rapporti con la Cina ripresero in un clima di cordialità, ma
fra le due visite reciproche di alte personalità (marzo '89-agosto '90),
l'Albania non risparmiò il duro biasimo per la strage di Piazza Tian
An Man del 3-4 giugno 1989, rimanendo il solo Stato socialista ad assumere tale
atteggiamento. Il miglior risultato nei confronti delle diplomazie orientali
resta senza dubbio la ripresa delle relazioni con l'Unione Sovietica, dietro
il riconoscimento di Mosca delle colpe per la rottura fomentata da Chrucëv
nel 1961 (12).
Il
viaggio del Segretario Generale dell'ONU, Javier Pérez de Cuéllar,
in Albania (11-13 maggio 1990) risultò foriero di effetti. A Tirana,
per la prima volta, si svolse un incontro fra le Commissioni UNESCO dei Paesi
balcanici (6-9 giugno 1990). Sull'ala dei risultati conseguiti, Alia si portò
a New York per la XLV sessione dell'Assemblea Generale dell'ONU (inaugurata
il 18 settembre). Pronunciò un discorso (13)
che ultimo notevole atto precedente la scadenza del mandato presidenziale
descrisse l'acme del proprio pragmatismo: egli ribadì gl'impegni
ad inaugurare un'attività diplomatica di largo respiro, totalmente disgiunta
da pregiudiziali politiche. Non trascorse molto che l'Albania entrò a
far parte della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (19 giugno
1991), dopo aver firmato l'Atto Finale di Helsinki del 1975. Fra il 1989 ed
il 1992 la diplomazia d'oltradriatico siglò tre importanti convenzioni
internazionali sugli armamenti (14).
La
visita del segretario di Stato americano, James Baker, a Tirana il 2 giugno
1991, inaugurò una serie di contatti che poi hanno condotto l'Albania
a varare lungo il 1991 intese con Città del Vaticano, Comunità
Europea, Repubblica di Corea (sud), Israele e Gran Bretagna.
L'avvento
del quarantacinquenne Sali Berisha (confermato per un altro quinquennio nello
scorso marzo) medico senza pratica politica, ma di grandi personalità
e determinazione fu mediato dall'alacre attività dell'esperto Alia,
il quale lasciava al successore le solide fondamenta di un mirabile lavoro diplomatico,
frutto di un'avita conoscenza plurisecolare in fatto di gestione dello Stato
ed equilibri internazionali.
La
soluzione della spinosa questione di Corfù (maggio 1992) (15);
l'appianamento di aspri contenziosi con la Grecia (1993-95), derivati dalla
forte minoranza ellenica in Albania; le ottime relazioni con i Paesi balcanici
(1992-97); la contemporanea richiesta di peacekeeping forces dell'ONU
per proteggere gli Albanesi di Kosova, e Macedonia (pari al 21% della popolazione);
la creazione, assieme a dieci Stati (16)
del Black Sea Economic Co-operation Group (3 febbraio 1992) e
d'intesa con il Gulf Co-operation Council della Arab Albanian
Islamic Bank (settembre 1992); l'accoglimento nell'Organizzazione della
Conferenza Islamica (dicembre 1992); l'ammissione, come Stato associato, alla
North Atlantic Assembly (organizzazione interparlamentare della NATO,
maggio 1993); la visita di eminenti personalità (1992-97); i viaggi di
Berisha all'estero nello stesso periodo, dànno l'idea di rapidità
di mosse e iniziative di una dirigenza che, rinnovatasi contrariamente
agli altri Paesi ex comunisti punta decisamente ad una radicale svolta
politico-economica.
La
stessa richiesta di aderire alla NATO (16 dicembre 1992) (17),
dopo la politica autarchica del passato, è una sterzata apparente, in
quanto la sicurezza che ieri offriva l'isolamento contro i blocchi compatti
jugoslavo e sovietico, oggi è rappresentata da un forte alleato che tenga
a freno lo sciovinismo di una Penisola balcanica mai così insanguinata
sia all'esterno che all'interno dei rispettivi Paesi che la compongono.
L'Albania
ha rapporti diplomatici con ben 144 Stati (18).
L'elenco
si apre con Diocleziano (285-305), di origine illirica; egli «s'impadroniva
del titolo imperiale, armato da una ferrea volontà di riordinare lo Stato
romano e di ristabilire nella sua pienezza l'autorità e il prestigio
del potere centrale» (Renato Fabietti). Inoltre ricordiamo l'imperatore
romano d'Oriente, Anastasio I (491-518), di Durazzo; esperto amministratore,
valido legislatore, nonché abile stratega (la stessa madre di Alessandro
Magno era epirota).
Proseguiamo
con Gjergj Kastrioti Skënderbeu (Scanderbeg), già principe, generale
e governatore ottomano di sangiaccato, e poi alfiere dell'indipendenza albanese
(1443-68), riconosciutagli nel 1461 dal sultano Maometto II, che lo intitolò
Principe d'Albania e di Epiro.
Gran
Visir della Porta: Sinàn Pasha il Grande (1560-1596); famiglia
Köprülü: Mehmed Pasha (1657-61), Zàdeh Fàdil Ahmed
Pasha (1661-76), Qara Mustafà (1676-89), Zàdeh Mustafà
Pasha (1689-91). Capo di Stato Maggiore: Nu'màn Pasha (inizi XVIII sec.).
Mohammed 'Alì dal 1805 governatore, e dal '14 Pasha d'Egitto ,
suo figlio Ismà'ìl (khedive dal 1862), e la discendenza,
che governò il Paese egiziano per tutto il XIX secolo; Kemal Atatürk
era di origine schipetara, mentre Madre Teresa di Calcutta è albanese.
In principio
gli Albanesi evasero nel '90-91 dal "grande carcere"; definizione che il poeta
Visar Zhiti - condannato a dieci anni di dura galera - coniò per l'Albania
del Grande Fratello il quale, nella metafora dell'orvelliano romanzo
di Ismail Kadare ll palazzo dei sogni (Longanesi, 1991), controllava
e uccideva anche i sogni. Quei sogni che per Costantino Marco, scrittore delle
comunità arbëreshë di Calabria, la letteratura del realismo
socialista non poteva offrire perché: «Tutto, in Albania, era reale,
e non solo il socialismo. Insomma, gli albanesi non sapevano più sognare,
ma vivevano il sogno come realtà quotidiana». E a un personaggio
del suo romanzo Ahlem (Marco, 1995) fa dire: «[...] Non serviva
studiare in un mondo dove la carriera e le disgrazie le assicurava il partito».
Non sogni di ricchezza, ma di costruzione di nuovi modelli culturali, politici
e sociali.
L'Albania,
venuto meno lo Stato, offre l'immagine di desolante vuoto, di assenza di un
universo spirituale, di orde di sradicati dalla propria terra e di estraniati
dal mondo moderno i cui riferimenti sono solo i beni materiali e il consumismo.
Perduto anche il senso del clan, che non è più quello antico
del Kanun, le leggi consuetudinarie oralmente tramandate e applicate
dall'auctoritas dei migliori, il popolo; nelle zone non controllate dal
governo, si deve sottomettere al dominio del mediocre, del più forte
e all'asservimento del potente di turno, come avveniva nel periodo del comunismo.
Più che di clan allora si può parlare di aggregazioni a
bande, di minoranze attive che terrorizzano la popolazione. Non solo. La furia
delle onde riporta sugli arenili gli ultimi relitti di uno stalinismo nazionale
che costruiva seicentomila bunker per difendere «la fortezza del
socialismo nel Mediterraneo» dai «revisionisti e dai borghesi».
I libri di testo delle scuole - erano gli anni Settanta - riportavano "il pensiero",
da commentare in classe, del primo ministro, suicida nel 1981, Mehmet Shehu:
«Voi avete due madri, quella che vi ha dato alla luce destinata a morire,
e il partito (in lingua albanese di genere femminile, N.d.A.) che non
morirà mai».
Distrutto
il legame popolo e terra-patria, si instaurò l'innaturale nesso partito-Stato
e popolo, con il sofisma «ciò che dice il popolo fa il partito,
ciò che dice il partito fa il popolo». Infine, rimasti orfani della
madre-partito che li allevava e a tutto provvedeva, i figli delle aquile,
senza un nido ed implumi, non riescono a impennare le ali per volare nella democrazia.
Occorre la traversata del deserto, lunga e faticosa. Ma quanti si sono incamminati?
«Dopo cinquant'anni di sacrifici chi è disposto ad altri sacrifici?»,
era l'interrogativo che si poneva il giovane giornalista Arben Kondi, nel 1995.
Allora la marcia è diventata per alcuni una fuga che li ha trasformati
in predoni alla conquista del bottino.
Quattro
anni sono stati pochi, ma gli intellettuali albanesi hanno saputo assumersi
il gravoso compito? Forse per mancanza di mezzi economici, forse per assenza
di idee, forse per interne deficienze della democrazia, forse perché
tra il valore della libertà e del lavoro, quale bene del corpo e di soddisfazione
dei bisogni materiali, sono stati attratti da questi ultimi, per cui non si
sono inseriti attivamente in un tessuto istituzionale democratico, non hanno
compreso il loro nuovo ruolo di "sacerdoti laici". Allora al primato della cultura,
si è preferito quello più allettante dell'economia impostasi anche
sulla politica. Dall'altra parte l'Europa non ha percepito la tragedia culturale
dalla quale usciva l'Albania. Anzi crede che il "libero mercato" sia la panacea
di tutto, dimenticando che senza la cultura le democrazie sono instabili, non
crescono, né si possono sostenere le economie. L'Albania, quale laboratorio
dei rapporti tra Nord e Sud del mondo, ha dimostrato che le trasformazioni delle
società non possono avvenire solo sulla base materiale, e che le debolezze
culturali non si risolvono con la strategia del mercato o il semplice soccorso
finanziario, finalizato esclusivamente all'economia. Anche le molte organizzazioni
religiose, impegnate soprattutto sul piano sociale, dovrebbero ripensare la
loro presenza e attività.
Insieme
al grano non è giunta in Albania la cultura europea. Ysuf Vrioni, formatosi
nell'ante-guerra in Francia e in Italia, raffinato traduttore che ha contribuito
al successo all'estero delle opere di Kadare, già nel 1993 segnalava
la fragilità della democrazia, aggredita da molti, per interessi spiccioli
e di bottega: «Tutti parlano di democrazia, ma questa resta solo una parola
vuota perché manca la sua cultura» e ancora: «Tutti pensano
che l'Europa sia solo ricchezza materiale».
È
questo il volto dell'altro dramma dell'Albania, terra epica dove ogni atto deve
essere eroico, dove la vichiana giovinezza dei popoli è eterna e stenta
a diventare maturità. Il dittatore Hoxha l'aveva capito e al particolarismo
delle tribù aveva sostituito il collettivismo di un marxismo-leninismo
eroico e velleitario, guida e faro del pianeta Terra, distruggendo però
la memoria storica e la speranza di entrare nel pensiero moderno, rinchiudendo
gli schipetari nell'isolamento culturale e economico. Così continuano
a cadere sull'Italia le ultime macerie spirituali e materiali di un passato,
abbarbicato nell'inconscio di alcuni e nella coscienza dei nostalgici che non
si sono mai rassegnati di aver perso il potere.
Il problema
del parcheggio a Pisa è tutt'oggi un problema irrisolto. Lo si vorrebbe
affrontare con la creazione dei peraltro necessari parcheggi scambiatori ai
margini del centro e la chiusura totale di esso, ma il rischio è che
il centro storico si svuoti di attività e di presenze sotto gli aspetti
sociali e commerciali. Mentre pare giustificato l'intervento di eliminazione
del traffico di attraversamento interno da una zona all'altra del centro, non
è ammissibile escludere il raggiungimento dello stesso, anche se va regolato
e limitato in funzione della potenzialità di parcheggi interni in zone
nevralgiche. Il parcheggio in strutture costruite, sia interrate che fuori terra,
è oggi da molti visto come fonte di inquinamento, per il fatto che si
portano molte auto a concentrarsi in zone ristrette con le relative manovre
al suo interno, mentre è problema superabile garantendo sedi stradali
libere, tali da consentire una fluida circolazione, con il vantaggio dell'abbattimento
delle barriere architettoniche e visive costituite dalle macchine in sosta in
superficie, aree urbane recuperabili alla pedonabilità, al verde attrezzato,
all'interazione fra persone, all'arredo urbano in termini di servizi.
Le
soluzioni di parcheggio in silos hanno una convenienza gestionale solamente
quando sono ben organizzate ed integrate nel contesto cittadino, avendo un sistema
organico di segnaletica anche ai margini della città, con chiare indicazioni
per il raggiungimento degli stalli liberi, con un efficiente servizio di controllo
della sosta abusiva nelle zone prossime ad esso. Occorrono cioè adeguate
condizioni al contorno.
Un
esempio di soluzione organica, razionale e funzionale è, ad esempio,
il parcheggio di Piazza Santa Maria Novella a Firenze e di Volterra; potrebbe
esserlo quello in Piazza Santa Caterina, valido perché nel cuore della
città, in zona a traffico limitato, con accessi fra il verde.
Per
queste realizzazioni è necessario l'apporto di capitali privati e ciò
è possibile, sotto l'aspetto di una congrua redditività tramite
adeguate convenzioni. Gli impegni vanno garantiti contrattualmente, affidando,
se necessario, gli stessi servizi di prevenzione, accertamento e controllo ai
concessionari stessi dei servizi.
L'agglomerato
urbano non può non essere accessibile con il mezzo privato perché
in ogni caso i mezzi pubblici, fra percorrenza, attesa, e raggiungimento della
fermata, allungano notevolmente i tempi e non tutte le zone potrebbero essere
ugualmente servite.
La
richiesta di sosta è differenziata e quindi va calcolata a seconda dell'utenza:
residenziale, commerciale, universitaria, ospedaliera, di servizi, ecc.
Per
necessità di sosta breve in certe zone è necessario incentivare
la rotazione, impedendo che i posti auto siano occupati da auto in sosta per
tutto il giorno o per molte ore della giornata. Questo si ottiene introducendo
tariffe crescenti, mentre l'effetto opposto si può ottenere con l'introduzione
di tariffe convenzionate.
Per
il pagamento delle tariffe, speciali macchine rilasciano il biglietto con l'indicazione
del posto (numerato) che occupa la vettura, dell'orario di arrivo e di partenza
e segnalano tutti i dati ad un computer centrale il quale in base a dati standard
per i vari periodi è in grado di lanciare segnali di allarme a personale
addetto al controllo, qualora risultasse improbabile la non prenotazione di
spazi sosta. Le aree sosta in superficie, saranno in ogni caso tutte segnate
e valutate in relazione alla destinazione urbana da un punto di vista della
rispondenza alle normative e di arredo urbano. I residenti, nonché gli
operatori economici potrebbero avere a disposizione un posto in silos, numerato,
in prossimità della loro attività, dietro rilascio di apposito
tesserino a scadenza annuale.
Attraverso
una buona analisi ed una scelta progettuale supportata da controlli ed agevolatori
(segnaletiche) è possibile ottenere un elevato grado di utilizzo e quindi
assicurare la necessaria redditività.
Per
ottimizzare il servizio offerto dai parcheggi in silos è oggi possibile
ricorrere a tecnologie innovatrici offerte dalla telematica. Gestire la mobilità
urbana vuole dire gestire tutto il territorio urbano. A tal fine sono di grande
efficacia i pannelli a messaggio variabile che indirizzano gli automobilisti,
attraverso gli accessi al centro dalle tangenziali esterne, esclusivamente nei
parcheggi presenti e liberi nelle varie zone, indicandone le caratteristiche,
nonché la capienza aggiornata in tempo reale.
È
evidente che le soste non potranno essere libere e gratuite nel centro, neppure
in piccole percentuali; questo per evitare un incontrollabile flusso di veicoli.
Per
raggiungere questi obiettivi pare interessante ricorrere a parcheggi in autosilos
meccanizzati automatizzati, nei quali l'utente mette l'auto spengendo il motore
all'ingresso prelevando l'auto all'uscita, dopo che tutti i movimenti, dalla
collocazione nel posto alla consegna all'uscita, avvengono grazie ad un sistema
meccanizzato automatico che consente all'auto movimenti sia su piano orizzontale
che verticale, con soluzioni che richiedono minimi spazi. Tutti i movimenti
sono gestiti da computer.
Questi
sistemi comportano limitate spese gestionali di personale, elevata densità
a parità di volume rispetto alle soluzioni tradizionali, pressoché
nullo inquinamento da scarico auto, esclusione di pericolo di incidenti e furti.
Saranno
invece preferibili parcheggi a rampe in zone dove il parcheggio ha grande richiesta
di entrata o di uscita in ore di punta. Sarà inoltre necessario procedere
allo studio di una nuova filosofia di uso del mezzo pubblico che preveda l'uso
di mezzi leggeri e convenzioni a pacchetto completo da stipulare con Usl, Università
ed altri Enti al fine di garantire collegamenti specifici in orari di punta
fra i parcheggi scambiatori ed i rispettivi poli di interesse presenti nel centro.
Questi
cenni sul piano tecnico sono stati dati unicamente al fine di far comprendere
che mentre a Pisa si continua a parlarne, altrove il problema è già
stato risolto o è in via di rapida soluzione.
Presso
la Biblioteca Universitaria di Pisa è consultabile un piccolo vocabolario
albanese-esperanto edito da una nostra casa editrice: la Edistudio.
Volendo
indagare oltre, apprendiamo che la Edistudio diretta da Brunetto Casini, noto
e apprezzato grafico pisano, è la maggiore casa editrice a livello mondiale
per ciò che concerne testi di studio in esperanto e per l'esperanto con
ben cinquanta titoli, più una decina in italiano.
Casini
si è diplomato in esperanto nel 1970 presso la nostra Università,
e ha quindi ricoperto e ricopre ruoli di prestigio nella Universala Esperanto-Asocio
(UEA); innanzitutto è da rilevare l'incarico dal 1974 all'83 di segretario
generale della Gioventù Esperantista Internazionale con sede a Rotterdam,
nonché la sua partecipazione ai più importanti Congressi mondiali.
La
Edistudio ha varato la propria attività ventidue anni fa con Il dolore
di Giuseppe Ungaretti, tradotto in esperanto. Il catalogo nel corso del '96,
tra gli altri, si è arricchito di due titoli fondamentali per la materia:
Carlo Minnaja, Vocabolario Italiano-Esperanto (1438 pagine; il maggiore
dei dizionari internazionali per Paese), e Umberto Eco, La sercado de la
perfekta lingvo. Per quest'anno, è prevista pure l'uscita della biografia
dell'ideatore dell'esperanto, Zamenhof, scritta dai francesi René Centassi
e Henri Masson. Indubbiamente un ennesimo patrimonio culturale di cui soltanto
pochi addetti ai lavori erano fin'oggi al corrente.
Fra
gli Autori presenti nel catalogo della casa editrice, e che scrivono per la
Edistudio annoveriamo: Julius Balbin, Dino Buzzati, Joseph Gamble, Upendronath
Gangopaddhae, Fulvio Tomizza, Franz Kafka, Rudyard Kipling, Ulrich Lins, il
grande linguista italiano Bruno Migliorini, Nikola Rasic, Giuliana Rossoci Bastogi,
Poul Thorsen, Bruno Vogelmann, ecc.
Una lingua
artificiale che ha suoni e parole comuni a tutte le lingue europee e che, secondo
il suo creatore, il medico ebreo-polacco Ludovico Lazzaro Zamenhof (1859-1917),
è destinata ad essere universalmente adottata per le relazioni fra i
popoli (1887).
Presenta
grande semplicità di regole grammaticali e fonetiche: le radici delle
parole studiatamente ricavate dal grembo delle lingue più in uso e le
parti del discorso acquistano un valore e un significato grazie alla terminazione
aggiunta alle suddette radici, in modo che i vocaboli terminanti per "o" sono
sostantivi; per "a", aggettivi; per "e", avverbi; per "i", verbi.
L'esperanto
si chiama in tal modo dallo pseudonimo (Doktoro) Esperanto = "colui che
spera", assunto da Zamenhof. Uno dei suoi ovvi vantaggi è che non ha
eccezioni alle regole, e mancano verbi irregolari, anomali, ecc.; e gli stessi
verbi hanno una sola chiusura per i tre tempi. L'alfabeto comprende 28 lettere,
corrispondenti ad altrettanti suoni. Ad oggi possiamo affermare che tra gli
oltre tremila tentativi di lingua universale nati nei secoli, l'esperanto sia
l'unica adottata con successo.
Passiamo
in rassegna le pubblicazioni della Edistudio, che distribuisce anche alcune
altre piccole case editrici esperantiste, e scopriremo che vuol dire essere
la prima casa editrice del mondo specializzata in testi scientifici e di apprendimento
riguardanti l'esperanto. Abbiamo consultato il suo catalogo alla pagina internet
http://www.edistudio.it
Inoltre, sono presenti dodici edizioni musicali
di canzoni originali e tradotte dalle culture di tutto il mondo.
In un Paese
dove i calciatori scrivono libri che in ventiquattro lezioni ti "trasformano"
in Maradona... in un Paese dove gente analfabeta dello spettacolo vende migliaia
di biografie narranti vite squallide e amorali... in un Paese dove comici di
mezza tacca stampano più libri di un cattedratico... in un Paese dove
sta emergendo il nuovo mestiere di scrittore-libri-per-conto-terzi... è
nata la figura del/la dietologo/a ignorante e non qualificato/a, magari forte
della terza elementare e l'esperienza de relato di qualche parente diplomatosi
alle serali a furia di frettolosi panini sullo stomaco.
Basta
sfogliare quei periodici d'infimo profilo e grande tiratura, per scoprire quanti
genî della medicina si esaltano tra le pagine di riviste a buon mercato
alla ricerca del gonzo da spremere, oppure del politico che ti sponsorizza il
volume di baggianate.
In
genere i migliori e gli eccellenti non li ascolti presso i salotti televisivi;
gli ottimi sono messi da parte a conferma del noto passo di Platone: «levare
di mezzo nascostamente tutti è assoluta necessità per il tiranno,
se ha da avere in sua mano il comando, sino a tanto che né tra amici,
tantomeno tra nemici non resti alcuno che valga qualcosa» (La Repubblica,VIII-17).
Purtroppo
mi rendo anche conto che i congressi di medicina non sono una platea di richiamo
massivo, per cui soltanto il fortunato - medico o meno - che ha la possibilità
di accedervi può disporre di un parco bibliografico esaustivo.
Ed
è proprio in un convegno ho scoperto il Manuale dietetico della
dottoressa Graziella Tedeschini. Alle domande, relative alla dietologia risponde
un libro preciso, che - non appena lo si cominci a leggere - risulta immediatamente
indispensabile.
Medico,
studioso, ed eccellente amministratore, la dott. Tedeschini dirige dal 1993
lo stabilimento Fonte Pudia di Arta Terme (Udine). Come medico, cura
e previene l'obesità, i disturbi connessi, i disagî delle persone
di ogni età; come studioso s'interroga da un lato sulle cause del peso
in eccesso, dall'altro sulla possibilità di dimagrire senza traumi attraverso
diete piacevolissime.
È
impossibile, se non si legge questo libro, immaginare quante cose ci siano da
imparare e capire in proposito. Il Manuale non è una sfornata
di "consigli", bensì un discorso rigorosamente scientifico anche se la
chiarezza espositiva e la gradualità delle argomentazioni lo rendono
comprensibile a un pubblico di lettori pure completamente sprovvisto di elementi
conoscitivi chimichi e biologici. Scopo del libro è aiutarci ad intendere
e dunque, in qualche misura, a decidere il proprio destino dietologico ed estetico.
Presentato
dal Prof. Andrea Benedetti, ordinario di endocrinologia presso l'Università
degli Studî di Trieste, il volume è diviso in tre parti: i) princìpi
generali della nutrizione; ii) dietetica e terapie naturistiche; iii) cibi e
ricette (antipasti, minestre, carni, pesci, uova, formaggi, verdure-ortaggi-legumi,
salse, frutta fresca, frutta secca / candita / caramellata); segue una ricca
appendice riguardante le cure termali di Arta, ed in conclusione una bibliografia
completa per chi volesse approfondire qualsiasi tema.
G. Tedeschini, Manuale dietetico per l'autoregolazione del peso corporeo, Piccin, Padova, 1994, 2a ed., pp. 260
© Giovanni Armillotta, 1999